sabato 10 giugno 2023

convegno CONI Unisalento riforma dello sport (26/05/2023) - Intervento Prof. Luigi Melica

convegno CONI Unisalento riforma dello sport - trascrizione a cura di Michelangela Greco

Saluti istituzionali

Presidente Coni Giliberto Angelo

La legge è una legge sbagliata, perché non è fatta dall’interno ma è stata imposta, da persone che probabilmente conoscono poco il nostro mondo. Quando si vogliono cambiare le cose, due sono i modi per farlo: o le riforme o le guerre. In un caso e nell’altro ci vogliono mezzi, risorse economiche ed umane. Nel nostro caso non ci sono né le risorse economiche, né tanto meno quelle umane. Questa legge è stata scritta male ed applicata peggio. Se il 1° luglio entrerà in vigore il decreto attuativo, che metterà in ginocchio le ASD, ci sarà poco da fare. Orbene, dal 1° luglio tutte le ASD o SSD dovranno modificare lo statuto, specificando se la prevalenza sia sportiva o economica e sostenendo delle spese.

I criteri e i limiti saranno definiti con apposito decreto, di prossima emanazione, dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Cosa significa? Che questo metterà in ginocchio il mondo dello sport.

Sarebbe bastato modificare la legge Melandri, senza creare questa confusione. Però, il CONI che elegge 65 consiglieri, sulla base di quella legge che vuole la rappresentanza delle atlete, dei tecnici e dei dirigenti, si sarebbe potuto riunire, formulando una proposta di legge dello Sport indirizzata al ministero vigilante, il quale avrebbe fornito un parere sulla linearità rispetto alla Costituzione. In caso di mancata conformità, il CONI avrebbe adeguato la proposta e si sarebbe giunti ad una nuova legge dello Sport, così come si è sempre fatto. Questo meccanismo ha subito, per usare termini sportivi, un fallo, in quanto la politica ha voluto fare questa Riforma.

 

Prof. Luigi Melica

Nel mondo dello sport esistono due realtà: una delle società professionistiche, e un’altra numericamente preponderante che riguarda piccole ASD.

Il mondo della politica dovrebbe anzitutto occuparsi di questa distinzione e sostenere economicamente le associazioni dilettantistiche. La riforma va fatta, perchè le prime società sono aiutate dal sistema mentre le seconde no, nonostante dal punto di vista degli allenamenti settimanali è minima la differenza tra sportivi professionisti e dilettanti. Occorre considerare inoltre che le associazioni dilettantistiche tolgono dalla strada tantissimi ragazzi, bisognerebbe investire su questa causa. Le ASD che tolgono i ragazzi dalla strada devono ricevere un contributo economico dalle regioni, per il servizio sociale che svolgono. Qualcuno delle istituzioni dovrebbe prendersi carico di questo, e non possono essere le federazioni o il CONI.

 

Avv. Emanuela De Leo

Parlare di Riforma dello Sport è difficilissimo. Dal punto di vista storico, nel corso degli ultimi 30 anni, la società si è evoluta e così lo sport. Lo sport si chiama “dilettantistico”, perché nasce per diletto, ai tempi praticato solo dai ricchi. Negli anni ‘80, ci si rende conto che lo sport è diventato un fenomeno importante. Con legge 91/1981 si regolamenta solo lo sport professionistico. Mentre lo sport dilettantistico, viene lasciato in un limbo fino alla riforma. Prima della riforma, lo sport era regolamentato solo dal punto di vista fiscale, dall’art.148 TUIR e dall’art. 90 della finanziaria del 2003. Però la definizione di sport, giusta o sbagliata che sia, è stata data per la prima volta nell’art.2 del d.lgs. n.36/2021, che entrerà in vigore il 1° luglio 2023. Quindi dal punto di vista civilistico, lo sport dilettantistico non era regolamentato.

La riforma però andava fatta dal basso e non dall’alto, secondo il principio di sussidiarietà orizzontale, ex. art. 118, ultimo comma, della Costituzione.

La legge delega risale al mese di agosto 2019, i 5 decreti attuativi (dei quali 4 sono già in vigore) risalgono al febbraio 2021. Fino ad oggi in molti non si sono preoccupati della Riforma, pensando che essa sarebbe stata rinviata all’infinito. Invece stiamo parlando di qualcosa che è già attuale, la Riforma è una realtà. Il registro dell’attività sportive dilettantistiche (RAS) è già in vigore dallo scorso anno, dal 31 agosto 2022. Si è intervenuti per l’ennesima volta sul decreto attuativo del RAS, ma ancora permangono dubbi interpretativi.

 

A cosa serve il RAS? Il RAS, secondo il decreto n.39:

       certifica la natura dilettantistica di ASD ed SSD (art.10);

       certifica la natura dilettantistica dell’attività svolta dalle associazioni affiliate agli enti di promozione, alle discipline sportive associate, alle federazioni sportive nazionali;

       serve alla PA per verificare cosa succede nelle associazioni;

       serve ad ottenere la personalità giuridica in maniera semplificata, in deroga al dpr 361/2000 ;

       serve a gestire rapporti di collaborazione con vari lavoratori che si avranno nelle associazioni;

       serve a chi ha dei rapporti con le associazioni, soprattutto quelle aventi personalità giuridica ma non solo, e che quindi dal profilo pubblico possa accedere per vedere qual è la realtà con cui ci si interfaccia, come forma di garanzia. Su questo, bisogna precisare che già c’era il registro CONI, quindi perchè è stato necessario un altro registro? Perchè probabilmente non si vuole più pensare allo sport come appannaggio esclusivo del CONI, anche perché il CONI è un unicum rispetto ai comitati olimpici internazionali. Il CONI si occupa della formazione olimpica. È necessario che il CONI venga non ostacolato, bensì supportato rispetto a tutto ciò che non è sport olimpico. Chi era iscritto nel registro CONI, ha dovuto semplicemente attivare la propria utenza sul RAS, i dati del registro CONI sono transitati nel RAS. Le associazioni costituite dopo il 23 agosto 2022, devono compiere un altro passaggio attraverso l’ente affiliante che caricherà sul RAS il codice fiscale dell’associazione e del presidente, dopo sarà il legale rappresentante dell’associazione ad attivare la propria utenza.

 

Stante le numerose funzioni, il RAS non è ancora attivo.

Quali dati si inseriscono nel RAS? Innanzitutto quelli che si inseriscono nel registro CONI. Poi vi sono delle novità: devono essere inseriti tutti i nomi e i dati dei tesserati, tutti gli impianti. Addirittura inizialmente il decreto prevedeva il deposito dei rendiconti, poi c’è stato un correttivo, anche del decreto 39, per cui non è più necessario inserire i bilanci, però è necessario entro il 31 gennaio di ogni anno depositare un’autocertificazione con cui si rende conto del fatto che ci siano state delle modifiche nell’assetto societario o tutto quello che è successo nel corso dell’anno, che possa interessare il Dipartimento dello sport, sport e salute, l’Agenzia delle Entrate, il Ministero del lavoro.

Purtroppo ci sono il RUNTS, il registro CONI, il RAS, il registro CIP. Immaginate un ASD che è anche un APS, deve essere intanto iscritta a tutti e due. Nonostante il correttivo del decreto 36 abbia fatto in modo di allineare terzo settore e “sport puro” - parentesi: nella riforma del terzo settore del 2017 si dice che le APS possono svolgere anche attività sportiva fra le attività di interesse generale. Nel 2019 si ha la riforma dello sport, in cui si parla di sport vero e proprio, nel decreto 36 non c’era però un allineamento tra terzo settore e sport vero e proprio. Il decreto 36 ha cercato di collegare i due sistemi che si occupano del non profit.

 

Però, cosa è successo? C’è un problema. Quali sono i requisiti per iscriversi al RAS? Si parla per poter essere iscritti al RAS di “attività sportiva, nonché formazione, didattica, preparazione e assistenza all’attività sportiva”.  In tutta la riforma dello sport si fa una grande confusione su chi possa essere qualificato come associazione o società sportiva dilettantistica. Non è una questione solo terminologica. Dai requisiti per essere iscritti al RAS, dipendono le agevolazioni fiscali. Non si capisce se un’associazione sportiva possa svolgere esclusivamente attività sportiva o se debba necessariamente svolgere attività didattica.

Esempio, si pensi ad una palestra di fitness ASD, in cui si fanno solo corsi, senza competizioni. È un’attività sportiva dilettantistica che può iscriversi al RAS e quindi beneficiare di tutti gli sgravi fiscali? Non si sa. Il problema è che il decreto n.36 ha consentito agli enti del terzo settore di entrare nel mondo dello sport vero e proprio, ma gli enti del terzo settore non fanno solo attività sportiva ma anche altre attività. Il legislatore nel correttivo di novembre con l’art. 38 comma 1, ha detto che l’area del dilettantismo comprende i sodalizi che svolgono attività sportiva in tutte le sue forme, senza distinzione tra attività agonistica, didattica, formativa, fisica e motoria. Il problema non è risolto. Abbiamo due articoli in contraddizione tra loro nel regolamento del RAS.

Il primo dice che entro 180 giorni dall’iscrizione (nuova costituzione) al RAS, devi comunicare di svolgere almeno una delle attività o di didattica o di formazione. Quindi se faccio solo corsi ma non faccio campionati, secondo questa norma posso iscrivermi al RAS.

Il secondo articolo dice invece che servono tutte e due le attività, sia di didattica che di formazione.

 

Veniamo alle modifiche statutarie. Intanto occorre modificare gli statuti delle associazioni. È importante distinguere tra l’attività principale praticata in via stabile e le attività diverse. Allineandosi con il terzo settore, il legislatore ha dato una stretta, dicendo che l'attività istituzionale è quella praticata in via stabile e principale. Le attività diverse (es. attività ricreative, come i campi estivi) come si regolamentano? Se il 1° luglio entra in vigore la riforma, teoricamente sono attività diverse. Posto che si attende il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che riguarderà esclusivamente i limiti entro cui si potranno praticare queste attività che se andiamo al terzo settore, dovrebbe essere il 30% delle entrate del bilancio e il 66% dei costi (non lo sappiamo, perché il decreto ancora non c’è, e fortunatamente il correttivo ha tolto di mezzo da questo computo le sponsorizzazioni, i proventi promo pubblicitari, i proventi dalla gestione di impianti e i indennità per il trasferimento di atleti). Il problema qual è? Che non è chiaro. Speriamo che il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri chiarisca. Eppure, se il 1° luglio entra in vigore la riforma, noi dobbiamo modificare gli statuti nel senso in cui vi ho detto.

Bisogna prendere contezza del fatto che, in parte la riforma è già legge e bisogna adeguarsi, modificando gli istituti. L’iscrizione al RAS bisogna farla. Per legge, l’unico ente certificatore non più il CONI, bensì il Dipartimento dello Sport.

 

Presidente Coni Giliberto Angelo

Il CONI, nel consiglio nazionale del 23 ha già detto che nel prossimo consiglio presenterà alle Federazioni Nazionali un documento in cui dirà come fare la modifica dello statuto, nominando anche un commissario ad acta, che lo farà per tutte le Federazioni.

sabato 25 giugno 2022

Vincolo sportivo. Timide novità nella figc. Intervento di Domenico Zinnari*

 Con il Comunicato Ufficiale n.283/A  del 15 giugno 2022 la Federazione Italiana Giuoco Calcio ha disposto la modifica degli articoli 31, 32 e 32 bis delle N.O.I.F. ( Norme Organizzative Interne della F.I.G.C.) con decorrenza dall’1 luglio 2022.

Le modifiche introdotte incidono su alcuni peculiari profili del c.d. vincolo sportivo nell’ambito dilettantistico.

Nel dettaglio il primo intervento attiene l’art. 31 delle N.O.I.F. in tema di “Giovani”.

 La nuova stesura dell’articolo 31 precitato prevede che ‘Sono qualificati Giovani i calciatori e le calciatrici che abbiano anagraficamente compiuto l’ottavo anno e che all’inizio della stagione sportiva non abbiano compiuto il 16° anno”.

Il testo previgente individuava i calciatori e/o calciatrici con status di Giovani  in quei soggetti che avevano compiuto ”l’ottavo anno di età e che al 1° gennaio dell’anno in cui ha inizio la stagione sportiva non abbiano compiuto il 16° anno di età’.

La modifica normativa, come detto in vigore dall’1 luglio 2022  una specifica disciplina transitoria. Per la stagione 202/2023 le società di Puro Settore Giovanile ( ossia quelle che non siano associate alla Lega Nazionale Dilettanti)  potranno tesserare con vincolo annuale calciatori e/o calciatrici nati nel primo semestre del 2006.

Nella stagione sportiva 2023/2024  le dette società potranno tesserare con vincolo annuale calciatori e/o calciatrici nati nel primo semestre del 2007.


Significativa la modifica dell’art. 32 delle N.O.I.F. La nuova normativa prevede  lo “scorporo’ del comma 1 dell’articolo 32 che definisce i “Giovani Dilettanti”. I

La precedente disciplina, infatti, recitava: “I calciatori/calciatrici Giovani, dal 14° anno di età anagraficamente compiuto, possono assumere con le società di Lnd o della Divisione Calcio Femminile per la quale sono già tesserati, vincolo di tesseramento sino al termine della stagione sportiva entro la quale abbiano anagraficamente compiuto il 25° anno di età, acquisendo la qualifica di ‘Giovani Dilettanti”.

La nuova norma contenuta nell’art. 32 lett. a) , per contro, prevede che: “I calciatori/calciatrici che in corso di stagione compiono il 16° anno di età possono assumere con la società della Lnd o con le società di serie B della Divisione Calcio femminile per la quale sono già tesserati/e, vincolo di tesseramento sino al termine della stagione sportiva entro la quale abbiano anagraficamente compiuto il 24° anno di età, acquisendo la qualifica di ‘Giovane Dilettante’.

La successiva lett. b) inoltre prevede che‘I calciatori/calciatrici che al 1° luglio abbiano compiuto il 16° anno di età, assumeranno con la società di Lnd o con le società di serie B della Divisione Calcio femminile per la quale sono già tesserati/e, vincolo di tesseramento sino al termine della stagione sportiva entro la quale abbiano anagraficamente compiuto il 24° anno di età, acquisendo la qualifica di ‘Giovane Dilettante’.

In sintesi, pertanto, se anteriormente all’entrata in vigore della nuova  disciplina i calciatori e/o calciatrici  al compimento del 14° anno  in corso di stagione  potevano assumere  con società  della LND o della Divisione Calcio Femminile   il vincolo valido fino al 25° anno di età., con le modifiche introdotte,  sarà possibile assumere il vincolo  non prima del compimento del 16° anno  di età e si esaurirà nella stagione in cui il calciatore o calciatrice compirà il 24° anno.

In via transitoria  per la stagione 2022/2023 sarà consentito, per i calciatori/calciatrici nati nel primo semestre dell’anno 2006, assumere il vincolo anche per una sola stagione sportiva, al termine della quale saranno liberi/e di diritto.

Omologo “ meccanismo” è previsto per la stagione sportiva relativamente ai calciatori/calciatrici nati nel primo semestre dell’anno 2007.

 

L’ultima modifica, correlata e consequenziale a quelle precedentemente illustrate,  attiene l’art. 32 bis delle N.O.I.F.

Nel precedente testo, difatti, si stabiliva che: “I calciatori e le calciatrici, che, entro il termine della stagione sportiva in corso, abbiano anagraficamente compiuto o compiranno il 25° anno di età, possono chiedere nelle modalità previste, lo svincolo per decadenza’.

Secondo la nuova formulazione: “I calciatori e le calciatrici che entro il termine della stagione sportiva in corso abbiano compiuto o compiranno il 24° anno di età possono chiedere nelle modalità previste, lo svincolo per decadenza”.

Info link al Provvedimento 

 

**Avvocato Domenico Zinnari (nella foto sotto) del Foro di Lecce esperto di Diritto Sportivo

 


 

martedì 29 marzo 2022

MANCINI RESTA, COSI’ COME I PROBLEMI DEL CALCIO ITALIANO. INTERVENTO DI ANGELO BARNABA (Avvocato Stella d’Argento al merito sportivo)

E’ notizia di ieri il ripensamento di Roberto Mancini, che avrebbe deciso di non dimettersi più dopo aver fallito la qualificazione al Mondiale in Qatar. Resterà quindi C.T. della Nazionale, onorando il contratto sottoscritto nel maggio 2021 (scadenza 2026, 3 milioni di euro netti all’anno).

Una conclusione prevedibile e tutto sommato accettabile, soprattutto per la mancanza di alternative adeguate alla delicatezza dell’incarico: forse solo Ancelotti (mago nella gestione dei suoi team) e Gasperini (uno dei pochissimi capaci di proporre in Italia un’idea differente di calcio, più in linea con l’intensità richiesta a livello internazionale) potevano apparire soluzioni di profilo, ma difficilmente sarebbero stati subito disponibili.

A mio avviso Mancini ha sbagliato tante scelte, all’indomani del grande successo dello scorso luglio a Wembley. E tuttavia, crocifiggendo il C.T. dopo la mancata qualificazione, che fa il paio con quella di 4 anni fa (con Ventura in panchina), si sarebbe consumato null’altro che il consueto rito pagano: offrire, figurativamente, un sacrificio umano per espiare le colpe di tutti, attivando in quel modo un (penoso) meccanismo autoassolutorio da parte delle componenti maggiormente responsabili degli attuali risultati.

La verità è che vincere gli Europei, al culmine di una lunga striscia positiva, è stato come cogliere una rosa nel deserto. Perché solo di deserto si può parlare, in termini di risultati, per il calcio italiano negli ultimi 15 anni.
Al di la’ del fatto che non giocheremo il secondo Mondiale di seguito, in questo lunghissimo lasso di tempo le squadre di club hanno vinto una sola volta la Champions League, con l’Inter nel 2009/2010. Interessante ricordare con che formazione:
Julio Cesar; Maicon, Lucio, Samuel, Chivu; Zanetti, Cambiasso; Pandev, Sneijder, Eto’o; Milito. All: José Mourinho
Non un italiano nell’undici titolare, guidato da un tecnico portoghese.

Se parliamo di Europa League, per trovare l’ultimo successo di una squadra italiana dobbiamo andare indietro addirittura di 23 (ventitre!) anni: fu il Parma ad aggiudicarsi il trofeo, nella stagione 1998/99. Da allora più nulla, in una competizione che ha visto trionfare nel 2009 anche gli ucraini dello Shakhtar Donetsk, club di riferimento di quel Donbass che è proprio l’attuale epicentro del conflitto iniziato con l’invasione da parte della Russia poco più di un mese fa.

Forse basterebbe avere un po’ di memoria per rendersi conto che l’impresa eccezionale è stata vincere gli ultimi Europei e che il resto è null’altro che la (dolorosa ma ineluttabile) conseguenza di un sistema vecchio ed arroccato su sé stesso, che corre a larghe falcate verso il baratro dell’implosione.

I club sono quasi tutti pieni di debiti, ma malgrado questo sono pochi quelli che hanno sposato progetti sostenibili. Vale soprattutto per i massimi livelli, diventati facile preda per investitori stranieri, attratti dalla possibilità di fare shopping a prezzi di svendita… per fine attività. Ma in realtà, in qualunque categoria la sopravvivenza è legata – per la quasi totalità dei sodalizi – all’apporto diretto e continuo di qualche mecenate alla ricerca di emozioni/visibilità e/o intento a perseguire altri interessi economici, servendosi del calcio come strumento di penetrazione sociale.

Al netto di poche eccezioni, vetusti e impresentabili, e non solo per gli attuali standard internazionali, sono i nostri stadi, spesso privati finanche della manutenzione ordinaria ed abbandonati ai guasti dell’usura e del tempo.

La governance, che dovrebbe promuovere i necessari cambiamenti, appare a sua volta troppo datata per esprimere una vision di profilo moderno e troppo debole per imporre riforme strutturali. Le quali, per essere accettate da tutte le componenti, dovrebbero compendiare strategie win – win, elaborate facendo ricorso ad una progettualità ineccepibile e rigorosa, quasi scientifica nella pianificazione dei vantaggi sul medio/lungo termine.     
Quanto ai protagonisti in campo, dice molto il fatto che il giocatore icona della Serie A sia attualmente Zlatan Ibrahimovic, a 40 anni il volto più noto e ricercato dai grandi brand per pubblicizzare prodotti e servizi. Come del resto Giorgio Chiellini, 37 anni, altro super veterano. Mentre solo pochissimi club hanno il coraggio di investire seriamente sui migliori giovani talenti, lanciandoli nel nostro massimo campionato intorno ai vent’anni, come accade all’estero, in quella che è di sicuro una fase decisiva della loro carriera. Viceversa, molti di loro devono accontentarsi di giocare nel Campionato Primavera, anche quando militano in società che non lottano per vincere il campionato o accedere alla Champions League.

Quanto ai tifosi, manca il ricambio. Perché le nuove generazioni non riescono ad appassionarsi ad un prodotto così poco attrattivo: basta guardare le partite della Premier League per rendersi conto della differenza di velocità del gioco (che richiede maggiori abilità tecniche e qualità fisiche) e dell’adrenalina che produce negli spettatori, tenendoli avvinti. In Italia invece le gare sono esasperatamente tattiche, i ritmi bassi, le pause continue, anche per i tanti interventi dei direttori di gara: con queste premesse, è difficile conquistare un pubblico giovane, che viaggia su ben altri ritmi e frequenze.

Un cenno finale all’informazione sportiva: anche i grandi esperti e gli analisti che pontificano in TV sembrano ormai fuori tempo e le loro analisi spesso peccano di saccenteria ed autoreferenzialità. Tra pseudo virtuosi del linguaggio, alla perenne ricerca della frase ad effetto, ed iracondi “a comando”, per i quali i toni – sempre eccessivamente alti - che utilizzano per attirare l’attenzione ed attizzare la polemica sembrano contare molto di più dei contenuti.

In definitiva, il calcio italiano mi appare solo vittima di sè stesso e dei suoi atavici vizi, dai quali di tanto in tanto finge di voler guarire. Prigioniero della sua idea di grandezza, benchè sia ormai da tempo evaporata.
Ricorda un po’ Zeno, il personaggio dell’opera di Italo Svevo, e la frase iconica del romanzo di cui è protagonista: “Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio, perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente”.


Angelo Barnaba
Avvocato
Stella d’Argento al merito sportivo 

 


 


mercoledì 23 marzo 2022

martedì 8 marzo 2022

La rottura della tregua olimpica alla luce dei valori dell’Olimpismo. Intervento del Prof. Luigi Melica

Il precipitoso reveriment con il quale il Comitato internazionale degli sport paralimpici ha impedito agli atleti russi e bielorussi di partecipare alle gare che stavano per iniziare, imponendo loro, di fatto, di lasciare Pechino, rivela come la neutralità politica dello sport e la sua autonomia non possono considerarsi un valore assoluto. Per quanto, infatti, lo sport agonistico di alto livello sia prerogativa delle Federazioni sportive e dei Comitati olimpici cui sono affiliate, tuttavia, quando la grande maggioranza degli Stati in cui operano tali organismi adotta una decisione politica, i rispettivi organismi di governo dello sport, obtorto collo, devono adeguarsi. Ovviamente e sempre per definizione, decisioni simili non possono che adottarsi in presenza di fatti politicamente gravi e/o di comportamenti che ledono i principi-valori cristallizzati nella Carta olimpica.

È in questa cornice che si inquadra il provvedimento di esclusione del 3 marzo 2022 del Comitato Internazionale Paralimpico degli atleti russi e bielorussi presenti nei villaggi olimpici. Nella decisione, come spiegato dal Presidente Parsons, pur nella consapevolezza che sport e politica non devono mischiarsi – “[…] we are very firm believers that sport and politics should not mix” –  si osserva però che la guerra è entrata anche nei Giochi olimpici e le decisioni prese dai Governi impattano inevitabilmente su di essi – “[…] the war has now come to these Games and behind the scenes many Governments are having an influence on our cherished event”. Benché, quindi, non si siano verificati scontri tra gli atleti appartenenti alle delegazioni dei Paesi in conflitto, tuttavia, nei villaggi olimpici si percepisce una tensione sempre più crescente a causa dell’escalation del conflitto, al punto, si chiarisce, che diverse delegazioni hanno informato il Comitato che, qualora non si fossero esclusi gli atleti russi e bielorussi dalle gare, si sarebbero fatti ritirare i propri. Di conseguenza, nonostante la totale estraneità degli atleti russi e bielorussi a fatti riconducibili alla guerra, la loro presenza nelle gare avrebbe coinciso con il ritiro di quasi tutti gli altri e con molta probabilità sarebbe saltata l’intera competizione – “The IPC is a membership-based organisation, and we are receptive to the views of our member organisations”. La colpa non è dunque degli atleti, ma dei loro Governi. Dinanzi alla fermezza delle autorità degli Stati le cui delegazioni olimpiche erano presenti nel territorio sede delle gare (il Presidente non li nomina specificamente, ma dalle sue parole si comprende che si riferisce a numerosi Stati presenti alla competizione olimpica)[1], il Comitato Internazionale doveva quindi prendere atto che, in assenza di una esclusione degli atleti russi e bielorussi, non si sarebbero celebrati i Giochi paralimpici. Da un lato, dunque doveva tutelarsi la sicurezza degli atleti che soggiornano nei villaggi olimpici – “[…] and the situation in the athlete villages is escalating and has now become untenable– e dall’altro si doveva salvaguardare la realizzazione della stessa competizione sportiva – “With this in mind, and in order to preserve the integrity of these Games and the safety of all participants. Di qui, in conformità alla “costituzione” –  “[…] first and foremost, we have a duty as part of the Paralympic mission, enshrined in the constitution” –  le ragioni dell’esclusione dalle gare di tali atleti[2], ai quali, come detto, non poteva essere imputata alcuna responsabilità diretta, al punto che il Presidente Parsons si scusava con loro, addebitando ai rispettivi Governi la causa dell’esclusione – “[…] To the Para athletes from the impacted countries, we are very sorry that you are affected by the decisions your governments took last week in breaching the Olympic Truce”.  In definitiva, gli 83 atleti russi e bielorussi presenti nei villaggi olimpici erano vittime delle azioni dei loro Governi – “[…] you are victims of your governments’ actions”.

Trattasi di una decisione mai adottata nelle competizioni olimpiche, ma che, a onore del vero, scaturiva da un comportamento di uno Stato mai verificatosi in passato: da quando De Coubertin aveva restituito allo sport le gare olimpiche, infatti, mai uno Stato aveva violato apertamente la tregua olimpica. Che si fosse in presenza di tale situazione è del resto fuor di dubbio: da quando esistono gli sport paralimpici, infatti, le due competizioni, ossia le Olimpiadi e le Paralimpiadi, si sono susseguite con pochi giorni di distanza l’una dall’altra e si sono tenute nella stessa sede. Dunque, la competizione olimpica è unica. Colpisce, del resto, che lo stesso Presidente russo Putin, alcuni giorni prima, abbia addirittura presenziato alle competizioni olimpiche incontrando il Presidente cinese, attribuendo, quindi, grande importanza all’evento olimpico. Peccato che poi, ordinando l’invasione dell’Ucraina a distanza di pochissimi giorni dall’inizio delle Paralimpiadi, dimostrava di non attribuire alcun valore allo sport paralimpico. Già in passato, preme osservare, alcuni Governi avevano utilizzato l’arma del boicottaggio come forma di protesta, non inviando le proprie delegazioni alle gare olimpiche, stigmatizzando, così, i comportamenti e le azioni di altri Stati. Tuttavia, mai si era verificato che atleti già presenti ad una competizione olimpica, avessero dovuto abbandonare il villaggio perché i rispettivi Governi avevano dichiarato guerra ad un altro Paese. Nei Giochi olimpici di Melbourne iniziati il 22 novembre 1956, per esempio, le delegazioni di Spagna, Paesi Bassi e Svizzera decisero di non inviare i propri atleti in segno di protesta contro l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione sovietica, ma in quel caso non era stata violata la tregua olimpica perché la guerra era stata rapidissima, essendo iniziata il 23 ottobre e conclusa il 4 novembre quando fu ricostituito un governo filosovietico diretto da János Kádár. Analogamente, l’invasione dell’Afghanistan, sempre da parte dell’Unione Sovietica, cui fece seguito il boicottaggio di 65 delegazioni (tra le quali, quelle di Stati uniti, Canada, Israele, Giappone, Cina e Germania Ovest) alle Olimpiadi di Mosca, non aveva violato la tregua olimpica essendo iniziata un anno prima (nel dicembre 1979).

Il caso in epigrafe è dunque unico. Anzi, è molto probabile che l’atto in sé di violazione della tregua olimpica attraverso un atto di guerra fosse inimmaginabile per i redattori della Carta olimpica al punto da non ritenere di dover inserire una norma espressa nel Testo. La spiegazione è plausibile: trattasi di un fatto talmente grave da non avere bisogno di tradursi in un divieto espresso: “rompere” la tregua olimpica invadendo un Paese si trasduce infatti nella “rottura” di tutto il “giocattolo” olimpico. A questa conclusione si perviene dalla lettura ed interpretazione teleologica della stessa Carta. Quest’ultima, autodefinendosi “a basic instrument of a constitutional nature”, si articola in 7 principi fondamentali (i primi articoli definiti, appunto, i Principi fondamentali dell’Olimpismo) seguiti da 61 regole a loro volta dettagliate in numerose disposizioni attuative (bye-laws). Essa, come tutte la Carte costituzionali statali, prevede un procedimento aggravato per la sua modifica (regola 18)[3] e, sempre sulla falsariga delle Costituzioni statali, identifica il suo “popolo”, ossia il Movimento olimpico, non solo in un motto – Citius ± Altius ± Fortius – ma anche in una bandiera. In altra sede (cfr. intervento del 28 febbraio scorso su questo blog), avevo osservato che la Carta, per queste sue caratteristiche, proprio come le Costituzioni statali, dovrebbe essere interpretata alla luce dei principi ivi contemplati, regolando le diverse fattispecie attraverso il bilanciamento degli uni con gli altri, non senza dimenticare che il fenomeno dell’Olimpismo deve però convivere con gli ordinamenti costituzionali dei Paesi democratici e con le convenzioni internazionali ratificate dalla maggior parte di essi.

Ebbene, nel caso in epigrafe, si deve anzitutto richiamare il principio fondamentale n. 5, il quale, dopo aver ribadito la centralità dello sport nella società, stabilisce che tutte le organizzazioni sportive aderenti al Movimento olimpico devono essere politicamente neutrali – “[…] shall apply political neutrality”. In correlazione a questo dovere, le Istituzioni ed i soggetti del Movimento olimpico hanno il diritto-dovere di autonomia, ossia di avere il totale controllo delle regole dello sport  - “[…] they have the rights and obligations of autonomy, which include freely establishing and controlling the rules of sport” –, determinando le rispettive strutture di governo nel rispetto dei principi di buon governo – “[…] enjoying the right of elections free from any outside influence and the responsibility for ensuring that principles of good governance be applied”. Tale principio, come già detto, è correlato alla regola 50 che rafforza il dovere di neutralità politica, vietando ai soggetti del Movimento olimpico di porre in essere ogni tipo di “dimostrazione politica” – “[…] or political, religious or racial in tutti luoghi dove si svolgono le competizioni sportive – “[…] in any Olympic sites, venues or other areas”.  Parimenti correlata a questo caso è la regola 6, che stabilisce che i Giochi olimpici sono competizioni tra squadre ed atleti e non tra Paesi – “[…] and not between countries” – e gli atleti, a loro volta, devono essere selezionati dai rispettivi Comitati olimpici (e non dagli Stati).

In questo quadro si inserisce la decisione adottata dal Comitato internazionale paralimpico. A tal fine, è anzitutto coerente domandarsi, non esistendo alcuna specifica norma che impone l’espulsione degli atleti i cui Governi hanno violato la tregua olimpica, quale sia la base giuridica della decisione adottata che avrebbe fatto venire meno il generale principio di neutralità politica. Quali sono le fonti giuridiche della esclusione degli atleti russi e bielorussi, posto che le Olimpiadi, come più sopra affermato, non sono competizioni tra Stati, ma tra atleti? Non sarebbe stato sufficiente inibire gli atleti russi e bielorussi dall’utilizzazione delle bandiere nazionali e dalla rappresentazione dei loro inni? La risposta è nelle stesse parole del Presidente Parsons. In forza della “costituzione” olimpica, ha affermato, il Comitato ha il “dovere” di “garantire e sovraintendere alla buona riuscita dei Giochi paralimpici”, i quali, a causa dell’escalation del conflitto, sono a rischio, sia per la “sicurezza” degli atleti che soggiornano nei villaggi sia per la minaccia di ritiro di quasi tutte le delegazioni presenti in Cina[4].  Preme osservare che ai sensi del principio fondamentale n. 2, la finalità dell’Olimpismo è quella di porre lo sport al servizio dello sviluppo armonioso dell’umanità, al fine di promuovere una società pacifica in cui sia preservata la dignità umana. Di conseguenza, è lampante che il principio di neutralità politica debba regredire se un Paese muove guerra ad un altro durante le Olimpiadi, in quanto il primo trasgredisce, prima di tutto, l’essenza stessa dell’Olimpismo. Le autorità di governo dello sport, in simili eccezionalissime circostanze, non possono che cedere alla “ragion di stato” derivante dalla decisione concorde di quasi tutti i Governi cui fanno capo le delegazioni presenti nella competizione olimpica: le Olimpiadi, infatti e per definizione, non hanno ragion d’essere se si è in guerra e se a causa di essa vi partecipano un numero risibile di atleti.



[1] Questo passaggio si ritrova nel comunicato: “Multiple NPCs, some of which have been contacted by their governments, teams and athletes, are threatening not to compete”.

[2] Ancora, nel comunicato: “[…] to guarantee and supervise the organization of successful Paralympic Games, to ensure that in sport practiced within the Paralympic Movement the spirit of fair play prevails, violence is banned, the health risk of the athletes is managed and fundamental ethical principles are upheld”.

[3] Art. 18 Carta olimpica: “The quorum required for a Session is half the total membership of the IOC plus one. Decisions of the Session are taken by a majority of the votes cast; however, a majority of two-thirds of the votes cast is required for any modification of the Fundamental Principles of Olympism, of the Rules of the Olympic Charter, or if elsewhere provided in the Olympic Charter.

[4] Anche se, preme osservare, non è incongruo affermare che tra gare olimpiche e gare paralimpiche non possa esserci per definizione discontinuità temporale, posto che le seconde seguono sempre a distanza di pochi giorni dalla fine delle prime.

 

*Prof. Luigi Melica (nella Foto) 

 


 

lunedì 28 febbraio 2022

Neutralità politica e solidarietà al popolo ucraino nell’applicazione ed interpretazione della Carta olimpica. Intervento Prof. Luigi Melica*

In modo lapidario il vertice dello sport mondiale, l’Executive Board del CIO, ha esortato le Federazioni internazionali dello sport che ai sensi dell’art. 1 della Carta Olimpica fanno parte del Movimento olimpico a spostare o cancellare gli eventi sportivi che si sarebbero dovuti tenere in Federazione russa o in Bielorussia (“the IOC EB today urges all International Sports Federations to relocate or cancel their sports events currently planned in Russia or Belarus”). Non solo: nelle restanti competizioni sportive, l’organo di governo ha sollecitato le Federazioni a non permettere l’utilizzo delle bandiere di tali Paesi né a suonare i rispettivi inni nazionali. Al di là della gravità dell’intervento armato, sul piano dei valori dell’Olimpismo, la Russia ha anche violato la tregua olimpica in quanto il 4 marzo iniziano a Pechino le Paralimpiadi. In generale, il Presidente Putin attribuisce molta importanza alle competizioni olimpiche: prova ne sia che alcune settimane fa ha addirittura presenziato a quelle cinesi, ricevuto dal Presidente cinese Xi Jinping. Con molta probabilità, quella missione era servita a Putin per informare di persona il Presidente cinese degli eventi imminenti al fine di ricevere sostegno o comunque non ostilità. Molto meno importanti, evidentemente, sono per il Presidente russo, i Giochi paralimpici che stanno per iniziare. Il CIO, dunque, ordinando l’isolamento sia della Russia che della Bielorussia, ha considerato l’intervento armato ordinato dalla Federazione russa in territorio ucraino non come una questione di politica interna. Pertanto – e opportunamente - il principio fondamentale n. 5 della Carta olimpica che impone ai soggetti del Movimento olimpico la “neutralità politica” è stato considerato cedevole rispetto ai principi consacrati nell’ art. 2 della stessa Carta che mettono lo sport al servizio dello sviluppo armonioso dell’umanità per promuovere una società fondata sulla pace, preservando la dignità umana. Difatti, dopo il comunicato del CIO, le cancellazioni o spostamenti si sono susseguiti a raffica, a partire dalla finale di Champions di calcio spostata da San Pietroburgo a Parigi, a seguire con il gran premio di Formula 1 che si doveva tenere a Sochi il prossimo settembre. Molto probabilmente, infine, anche i Mondiali di pallavolo non saranno disputati in Russia come previsto. Non solo, ma in un intervento pubblicato oggi su questo stesso blog, l’avv. Angelo Barnaba si sofferma sulle decisioni adottate anche dall’Eurolega di basket che, come è noto, è una lega privata e non è vincolata dalle decisioni adottate dalla Federazione internazionale del basket e quindi dal CIO. Opportunamente, ogni gara tra squadre europee e squadre russe che si sarebbe dovuta disputare in territorio russo è stata spostata per dare modo a queste ultime di parteciparvi e ciò in nome di un principio generale ricavabile dalla stessa Carta olimpica secondo il quale le gare olimpiche sono competizioni tra atleti e squadre e non tra Stati (regola 6

Ma vi è di più: in questa occasione, le Istituzioni sportive non hanno vietato le manifestazioni di protesta contro la Russia e di solidarietà con il popolo ucraino espresse in modo plateale nei luoghi dove si pratica lo sport e, dunque, in violazione dell’art. 50 della Carta Olimpica. Ai sensi di quest’ultima, infatti, i soggetti del Movimento olimpico non possono porre in essere alcun tipo di “dimostrazione politica” in tutti luoghi in cui si svolgono le competizioni sportive (“in any Olympic sites, venues or other areas”).  Di conseguenza, nonostante la Federazione italiana del basket, in risposta alla suggestione del coach della Nazionale Sacchetti - “ci tingeremo la faccia con i colori dell'Ucraina” –, dopo avere chiesto alla Federazione internazionale l’autorizzazione a solidarizzare con il popolo e lo Stato ucraino, concedeva unicamente alle squadre di indossare una maglia bianca ed un minuto di silenzio, la protesta si è manifestata aggiungendo, sulle maglie bianche, la striscia azzurra, segnando inequivocabilmente l’adesione ad una delle parti in guerra, ossia all’Ucraina. In tutta Europa, più in generale, si è solidarizzato in modo plateale a favore dello Stato ucraino. Nella Bundesliga, per esempio, i calciatori di alcune squadre si sono abbracciati in segno di solidarietà all’Ucraina aprendo, subito dopo, uno striscione colorato con i simboli della bandiera ucraina con la scritta “stop alla guerra”. In alcuni stadi tedeschi, l’appello alla pace è stato diffuso, sia con la raffigurazione di una colomba appesa pubblicamente sugli spalti, sia, sempre sugli spalti, appendendo un quadro con cinque persone che si tengono per mano con quella al centro colorata con i colori dell’Ucraina. Nella Premier League che pure, come l’Eurolega, è una lega privata non collegata ad alcuna federazione appartenente al Movimento olimpico – prima della partita Everton-Manchester City, a dispetto della regola della neutralità politica, le due squadre hanno fatto ingresso in campo con una maglia bianca con stampata la bandiera Ucraina. Ma vi è di più: come segno del destino il 27 febbraio si è disputata nello stadio di Wembley la finale della Carabao Cup tra Liverpool e Chelsea. Il Presidente russo del Chelsea Abramovich, evidentemente presagendo cosa sarebbe avvenuto, rimetteva tutte le deleghe societarie: giusto in tempo per togliersi dall’imbarazzo di vedere il pubblico di entrambe le squadre solidarizzare con il popolo ucraino esibendo la bandiera nazionale di quello Stato, mentre nello stadio veniva affisso un cartellone di enormi dimensioni colorato di bianco e azzurro con la scritta: “Football stands together”.  

(I lettori possono vedere i video dei fatti richiamati nella seguente pagina web

https://www.goal.com/en/news/premier-league-clubs-solidarity-ukraine-russia-invasion/blt6bf5b7dd33f8573a

https://twitter.com/ESPNFC/status/1497974756120817664).

Chi scrive è consapevole che il caso in esame – la guerra sferrata dallo Stato russo – è diversissimo rispetto ad episodi del passato ed è di gravità inaudita rispetto ai valori dello sport contrassegnati nella Carta olimpica. Tuttavia, in futuro sarà sempre più difficile, anche dinanzi ad azioni politiche di un Paese meno gravi, ma sempre lesive dei principi e delle regole contenute nella Carta olimpica, impedire agli atleti di solidarizzare con le vittime delle azioni politiche in modo plateale. Ciò si verificherà, nonostante i vertici dello sport internazionale continueranno a non autorizzare tali forme di protesta in forza della citata regola n. 50.

Chi scrive ritiene che la Carta olimpica, proprio perché si autodefinisce “a basic instrument of a constitutional nature” e proprio perché contiene una serie di principi fondamentali che precedono le regole più specifiche, esattamente come le Costituzioni statali, dovrebbe essere interpretata alla luce dei diversi principi ivi contemplati, bilanciando gli uni con gli altri in relazione alle diverse fattispecie concrete, senza però dimenticare che il fenomeno dell’Olimpismo deve convivere con gli ordinamenti costituzionali dei Paesi democratici e con le convenzioni internazionali ratificate dalla maggior parte di essi. In questa prospettiva, è lampante che accanto all’autonomia ed indipedenza dello sport e delle sue Istituzioni che devono essere ammessi e riconosciuti da tutti gli ordinamenti statali, esistono comunque i diritti degli atleti ed in particolare la loro libertà di pensiero, la quale è certamente peculiare, posto che una dichiarazione diffusa sui media e sui social di uno sportivo di fama mondiale - nel bene o nel male - ha una risonanza enorme, quasi globale. Del resto, sono spesso gli stessi Governi a chiedere agli atleti di fama nazionale e mondiale di farsi promotori dei principi giuridici fondamentali attraverso gli spot istituzionali. Di conseguenza, è difficile poi, anche sul piano dell’interpretazione giuridica, vietare ad un atleta di manifestare platealmente contro l’aggressione a quegli stessi valori anche in casi meno gravi della guerra lanciata dalla Russia, ma pur sempre lesivi dei diritti umani. Ciò è ancor più vero se si pensa che la stessa Carta olimpica non è indifferente ai principi fondamentali dell’eguaglianza, della non discriminazione e dei diritti delle persone vulnerabili, ma considera tali principi parte integrante della mission dell’Olimpismo. Di per sé, quindi, anche ai sensi di tale Carta è quanto meno azzardato attribuire un valore assoluto alla neutralità politica di cui al principio n. 5 e all’art. 50 della stessa. Complessivamente, il CIO e le diverse Federazioni possono anche non autorizzare espressamente certe azioni o comportamenti in nome della neutralità politica, ma alla fine devono tollerare le reazioni individuali degli atleti, come quella del campione di calcio Lewandowski che è entrato in campo indossando una fascia con i colori dell’Ucraina. Problemi simili si sono avuti anche  durante gli ultimi Europei di calcio, quando al divieto intimato dall’UEFA al Comune di Monaco di Baviera di illuminare lo stadio con le luci dell’arcobaleno prima della partita tra Ungheria e Germania in segno di solidarietà alle minoranze transgender ed a quelle omosessuali lese da una legge approvata dal Parlamento ungherese, sono seguite diverse manifestazioni individuali da parte degli atleti, non ultima, quella del portiere tedesco Neuer che entrava in campo indossando una fascia di colore arcobaleno, violando il richiamato art. 50. Non può inoltre sottacersi, a dispetto della motivazione con la quale l’UEFA aveva vietato l’illuminazione dello stadio – “una delle due squadre rappresenta proprio lo Stato ungherese” – che come afferma la stessa Carta, nelle gare sportive, non ci sono Paesi contrapposti, ma solo atleti o squadre. Dunque, il CIO dovrebbe sempre e comunque tutelare gli atleti anche dinanzi alle politiche lesive dei principi contenuti nella Carta olimpica adottate dagli Stati di appartenenza degli atleti. Se non opera in tal senso o se vieta certe manifestazioni, ottiene l’effetto opposto. Come non ricordare quanto avvenuto nel 2013, durante i Mondiali di atletica leggera di Mosca, quando le autorità sportive rimasero silenti dinanzi ad una legge adottata alcuni mesi prima dal Parlamento russo che aveva discriminato i diritti delle persone omosessuali? In quell’occasione, la Federazione dell’atletica leggera intimò alla saltatrice in alto svedese, Emma Green-Tregaro, di togliersi lo smalto con le tonalità dell’arcobaleno che si era stesa il giorno prima in segno di solidarietà alle comunità omosessuali. Tale discutibile forma di rigidità non sortiva gli effetti sperati, considerato che proprio le staffettiste russe vincitrici della medaglia d’oro, con grande coraggio, durante la premiazione, davanti alle telecamere di tutto il mondo, decisero di baciarsi sulle labbra in segno di solidarietà con le minoranze lesbiche.

Il diritto dello sport, come si evince da queste brevi riflessioni, non è di semplice applicazione ed interpretazione. Come riferito più sopra, accanto all’ordinamento sportivo, internazionale e nazionale, esistono gli ordinamenti statali ed il diritto internazionale e convenzionale, che offrono una tutela rafforzata alle libertà di opinione, di riunione e di associazione e che non tollerano menomazioni di tali diritti, soprattutto se le opinioni mirano a chiedere tutela a favore di principi/valori costituzionali altrettanto importanti violati dagli Stati. La “neutralità politica”, dunque, va applicata interpretando la Carta olimpica, bilanciando i valori in essa consacrati.

*Prof. Luigi Melica (nella Foto) 



LA GUERRA IN EUROPA E LE PRIME REAZIONI NEL MONDO DELLO SPORT. INTERVENTO AVV. ANGELO BARNABA

La finale di Champions League del prossimo 28 maggio si disputerà a Parigi e non più a San Pietroburgo, per decisione dell’UEFA. Che ha anche stabilito che le gare di squadre di club russe ed ucraine saranno giocate in campo neutro.

La FIA, dal canto suo, ha già cancellato il Gran Premio di Sochi del 25 settembre.

Più in generale, è l’intero sport mondiale che a seguito degli eventi degli ultimi giorni ha deciso di prendere una posizione netta nei confronti della Russia di Putin.

Il CIO ha esortato tutte le Federazioni Sportive Internazionali a trasferire o annullare i loro eventi attualmente programmati in Russia o Bielorussia e dare priorità assoluta alla sicurezza ed alla protezione degli atleti. 

Insomma, questi primissimi giorni di conflitto hanno già scosso il mondo dello Sport in modo violento, evidenziando una volta di più le sue mille connessioni con la geopolitica e l’economia.

Le conseguenze dell’eventuale protrarsi di questa situazione sono naturalmente, allo stato, del tutto imprevedibili. Il terremoto creato dall’invasione dell’Ucraina è stato di una magnitudo finora sconosciuta e proprio per questo potrebbe generare, nella peggiore delle ipotesi, tanti tsunami altrettanto pericolosi e distruttivi degli equilibri precedenti. Ai quali peraltro, per dirla tutta, aveva già attentato pesantemente la pandemia: ed è proprio per questo che gli effetti di questo nuovo shock potrebbero essere devastanti.

Uno dei maggiori club calcistici inglesi, il ricchissimo Chelsea, potrebbe cambiare l’attuale proprietà (russa: l’oligarca Abramovich è considerato da sempre vicino a Putin).

Nel basket, in Euroleague giocano due squadre russe: il potentissimo CSKA Mosca e l’altrettanto ambizioso Zenit di San Pietroburgo. Con la necessaria tempestività, l’Eurolega ha deciso che le squadre russe in corsa nella competizione dovranno giocare in campo neutro. E così, le partite programmate per essere giocate sul suolo russo saranno spostate in altre sedi al di fuori della Russia, mentre le partite che coinvolgono squadre russe, ma programmate per essere giocare in altri paesi, continueranno a svolgersi come da programma.

L’Eurolega ha deciso in tal senso con l’obiettivo di tutelare l’integrità della competizione e consentire alle squadre di continuare a difendere il proprio diritto a gareggiare in campo, isolando lo sport da qualsiasi azione politica. E, nel contempo, per proteggere l'integrità di giocatori, allenatori, tifosi e staff, evitando che possano correre rischi.

Una decisione senz’altro condivisibile, alla luce di tutti gli interessi in gioco in quella che è diventata – a tutti gli effetti - la massima espressione del basket europeo a livello di club. Ed è singolare osservare come anche in questa triste occasione la storia, come teorizzava già secoli fa il filosofo napoletano Giambattista Vico, dopo aver fatto un giro immenso (purtroppo) ritorni.

Infatti, chi scrive lo ricorda bene per aver vissuto la stagione 1991 – 92 da Team Manager della Phonola Caserta Campione d’Italia, nell’allora Coppa dei Campioni, la FIBA decise che le squadre croate e serbe avrebbero dovuto eleggere la sede delle loro gare interne al di fuori dei confini nazionali. Scelsero, curiosamente, tutte e tre di giocare in Spagna. La “mia” Caserta incrociò le due croate e giocammo con la Spalato di Zan Tabak a La Coruna e con il Cibona Zagabria a Cadice, in Andalusia. Il Partizan Belgrado, allenato dell’allora giovane esordiente coach Obradovic, stabilì invece di giocare a Fuenlabrada, città situata nell’area metropolitana di Madrid. Da lì partì una grande storia di Sport, che terminò addirittura con la sorprendente conquista del massimo trofeo continentale, ottenuta contro ogni pronostico da un manipolo di ragazzi terribili.

Si trattò di un vero e proprio “fiore” sportivo, nato nel deserto di un conflitto sanguinoso e terribile, come tutte le guerre sanno essere.

 


 

giovedì 24 febbraio 2022

"C'è una cosa a cui una donna non deve rinunciare se lo vuole ed è diventare madre". Intervento dell'Avv. Francesca Semeraro*

"C'è una cosa a cui una donna non deve rinunciare se lo vuole ed è diventare madre".

Oggi più che mai, è importante dare una risposta a questa domanda: è possibile per una donna atleta conciliare il diritto alla maternità con la carriera sportiva?

Spesso è accaduto e forse accade ancora oggi che per le nostre atlete la maternità non è certamente un sogno ed un diritto facile da realizzare e le notizie giunte negli ultimi anni confermano questa situazione, purtroppo, difficile da scalfire.

Quante come Carli Lloyd o Lara Lugli?

La prima, palleggiatrice e capitana di Casalmaggiore accusata e insultata sui social dai tifosi per una sola "colpa", sì, quella di essere incinta o Lara Lugli, rea per aver sottaciuto, al momento della sottoscrizione del contratto con la società di Pordenone, la sua volontà di diventare mamma.

La storia di Lara è venuta alla ribalta nel 2021, dopo la pubblicazione di un post sul proprio profilo Facebook, con il quale la pallavolista denunciava la risoluzione del contratto per "comprovata gravidanza" avvenuta immediatamente dopo aver comunicato alla controparte il proprio stato interessante, seppur non portato a termine a causa di un aborto spontaneo.

Purtroppo, una prassi ormai consolidata nel mondo dello sport femminile è l'utilizzo delle c.d. "clausole antimaternità" sottoscritte dalle giocatrici in sede contrattuale, attraverso le quali una donna è costretta a dichiarare, se vuole lavorare, la mancata volontà di avere figli, rimanendo altrimenti fuori dai giochi.

La questione che emerge è di estrema importanza perché oltre a porre l'accento sulla legittimità o meno delle già menzionate clausole, in contrasto con l'art. 31 della Carta Costituzionale, rileva anche un secondo problema e cioè quello relativo alla mancata qualificazione delle atlete come professioniste, rimanendo, pertanto, prive di qualsivoglia tutela.

A tal riguardo, un importante intervento si è avuto con l'approvazione della Legge di Bilancio 2018, con cui è stato istituito il Fondo Maternità, rifinanziato per il triennio 2019-2021, grazie al quale si prevede l'erogazione di un contributo fino ad un massimo di 1000 euro da parte dell'Ufficio dello sport, assicurando così all'atleta la propria continuità retributiva anche durante il periodo di congedo di maternità.

Sostegno fortemente voluto anche dalla Federazione Italiana Pallavolo (Fipav), come dichiarato dal Presidente Giuseppe Manfredi, rimarcando così l'intenzione di porre rimedio ad una tematica sempre più attuale.

Ed infatti, a partire dal 1° gennaio 2022 la Fipav eroga in favore delle atlete in gravidanza e delle neomamme che accedono al Fondo "La maternità è di tutti", sussistendone i requisiti, un sussidio di euro 500,00, che, affiancato a quello riconosciuto mensilmente dall'Ufficio dello sport pari ad euro 1000,00 e sino ad un massimo di 10 mensilità, assicura alle atlete la continuità retributiva durante il periodo della gravidanza ed in quello immediatamente successivo alla nascita dei figli.

Pertanto, come anticipato in precedenza possono accedere al fondo le atlete che, al momento della presentazione della domanda, soddisfino la contemporanea sussistenza dei seguenti requisiti: l'attuale svolgimento in forma esclusiva o prevalente di un’attività sportiva agonistica riconosciuta dal Coni; l’assenza di redditi derivanti da altra attività per importi superiori a 15.000,00 euro lordi annui; la non appartenenza a gruppi sportivi militari o ad altri gruppi che garantiscono una forma di tutela previdenziale in caso di maternità; l’assenza di un’attività lavorativa che garantisca una forma di tutela previdenziale in caso di maternità; il possesso della cittadinanza italiana o di altro paese membro dell’Unione Europea oppure, per le atlete cittadine di un paese terzo, il possesso di permesso di soggiorno in corso di validità e con scadenza di almeno sei mesi successiva a quella della richiesta.

Inoltre, le linee guida prevedono alternativamente l’esistenza di ulteriori requisiti che soddisfino  l'esistenza di una delle seguenti situazioni, come l'aver partecipato negli ultimi cinque anni a una olimpiade o a un campionato o coppa del mondo oppure a un campionato o coppa europei riconosciuti dalla federazione di appartenenza oppure l'aver fatto parte almeno una volta negli ultimi cinque anni di una selezione nazionale della federazione di appartenenza in occasione di gare ufficiali e l'aver preso parte, per almeno due stagioni sportive compresa quella in corso, a un campionato nazionale federale.

L’erogazione del contributo soggiace ad un’ulteriore condizione che prevede da parte dell’atleta l’interruzione della propria attività agonistica, a partire dalla fine del primo mese di gravidanza e non oltre la fine dell’ottavo.

Infine, le linee guida al punto 3 individuano le ipotesi di decadenza del contributo, stabilendo che lo stesso venga meno in due specifiche circostanze e, dunque, in ogni caso nel momento in cui l'atleta riprenda l'attività agonistica oppure in caso di interruzione di gravidanza, fermo restando il diritto alla percezione del contributo, questo permane fino alla ripresa dell’attività agonistica e comunque per non più di 3 mesi. Quindi, al verificarsi di queste due situazioni l'atleta è tenuta a dare immediata comunicazione al competente Ufficio per lo Sport, stante le conseguenze penali, civili ed amministrative previste dalla legge per indebita percezione del contributo di maternità.

Alla luce dell’analisi effettuata, è importante evidenziare come il supporto della Federazione Italiana Pallavolo abbia rappresentato un enorme passo in avanti per le donne atlete che decidono di affrontare un momento indimenticabile della vita di una donna, semplificando la gestione di una situazione spesso non scevra di difficoltà.

Federazione che, come riportano i dati rilevati per la stagione sportiva 2018-2019, vanta un significativo numero di atlete tesserate, 199.152 sono le atlete aventi una fascia di età compresa tra i 6 e i 17 anni, 32.891 quelle tra i 18 e i 26 anni, 8.097 le atlete di età tra i 26 ed i 30 anni, mentre 6.901 quelle over 30.

Certamente, merita menzione la notizia giunta alla ribalta in questi ultimi giorni riguardante l’assunzione da parte di un imprenditore fiorentino di una donna di 27 anni “anche se incinta” , ciò dovrebbe portarci a riflettere sulla gravidanza come situazione di normalità e non come un ostacolo alla realizzazione della donna, qualsiasi ruolo essa svolga.

In conclusione, sia nel contesto sportivo che al di fuori di esso si può, dunque, parlare di un processo di apertura nei riguardi di un tema importante per tante donne qual è sicuramente il diritto alla maternità senza alcuna limitazione?

 

*Avv. Fipav Francesca Semeraro - Studentessa iscritta al 2 anno del corso di laurea in “Diritto e Management Dello Sport” presso l’Università del Salento